CARTOMANZIA GRATIS NEWSCinquanta anni fa l’attacco coincise con il giorno della espiazione, Yom Kippur, la più solenne delle feste ebraiche, quando il fedele si spoglia di tutte le scorie terrene e si apparta in un dialogo misterioso con il suo Dio. Dall’altra parte invece tutto era pronto per “l’operazione Badr”. Anche qui un Dio era in campo: era il decimo giorno del ramadan quando il profeta aveva iniziato la preparazione alla battaglia che doveva portarlo alla Mecca e all’avventura che avrebbe steso la bandiera dell’Islam sul mondo.
I trentacinque disossati fortini della Maginot israeliana sul Canale caddero uno dopo l’altro, come sempre accade a tutte le Maginot invalicabili. Alla tv egiziana, la sera del primo giorno, mostrarono immagini che fecero balzare il cuore a tutto il mondo arabo: dozzine di soldati israeliani in ginocchio nella sabbia sotto il sole che morde, le mani sopra la testa, e file di prigionieri con le uniformi a brandelli trascinati nelle retrovie con sul volto non l’angoscia o la stanchezza ma lo stupore della sconfitta impossibile. “Mesh momken”: impossibile: sì sembrava davvero impossibile. Gli arabi vincevano, in Israele le sirene ululavano lamentosamente.
La preghiera subito lasciò il posto alla guerra, alle tre del pomeriggio i rabbini fermarono le sacre invocazioni. I riservisti tentavano freneticamente da ore in tutti i modi di raggiungere, a sud e a nord, i fronti spezzati: con l’autostop, su auto private, con i bus della compagnia che gestiva il servizio per i turisti. Golda Meir, con sul volto rugoso i segni della stanchezza impressi come ferite, cercò di camuffare il disastro «abbiamo sempre saputo che il Cairo e Damasco stavano per attaccare. Di fronte al pericolo il nostro esercito ha fatto il necessario» …Una bugia. Dayan, l’invincibile Dayan che pochi mesi prima aveva sostenuto che Israele era «sulla soglia dell’età felice del ritorno a Sion», preso dal panico parlò della «possibilità della distruzione del terzo tempio»’, come gli israeliani chiamano il loro moderno stato nei momenti di angoscia. Nella notte del sette ottobre nel deserto del Neghev i missili Jericho a testata nucleare furono armati e pronti per il lancio.
La Cia aveva inviato molti avvisi sui preparativi degli arabi per un attacco. Gli israeliani non li presero sul serio, si sentivano invincibili. Dopo la guerra fu il capo dei servizi segreti militari Eli Zeira a pagare per tutti. Vittima comoda: era considerato un incapace portaborse di Dayan. “Hamekdhal”: cinquanta anni è ancora la parola giusta per “l’impossibile” attacco di Hamas nel cuore di Israele. Ma allora a mettere in pericolo Israele furono gli eserciti siriano e egiziano che la Unione sovietica aveva addestrato e armato meticolosamente, leggendo la lezione della guerra dei sei giorni per capovolgere il copione di invincibilità di Tzahal. Questa volta è peggio: a portare sanguinosamente la guerra in Israele è un minuscolo gruppo guerrigliero.
Israele ha di nuova paura, paura degli altri ma ancor più di se stesso. Anche in una fortezza qual è il peggio è possibile. Certo: come accadde nel 1973 Israele riprenderà il controllo della situazione. Ma più che mai sono le immagini che raccontano la Storia. Mezzo secolo fa erano solo la televisione e le fotografie a fissare la realtà. E furono già decisivi nello spezzare miti, ribaltare certezze che sembravano indiscutibili. Inocularono furori e sgomento: Israele poteva essere sconfitta. Oggi le immagini di questa battaglia che ha colto Israele impreparata e confusa si moltiplicano per cento mille diventano milioni, scorrono travolgenti e terribili sui telefonini: gli edifici distrutti dai razzi iraniani, gli israeliani trascinati via oltre la frontiera di Gaza tra sputi e botte, il carro armato decapitato attorno a cui danzano i miliziani, i bambini e le donne che piangono terrorizzate non a Gaza oa Hebron ma nelle città e nei kibbutz di Israele. Questa è la vera vittoria di Hamas: qualcosa ha squarciato la realtà precedente come se fosse una facciata di cartapesta.
Questo attacco polverizza le apparenze ingannevoli, obbliga Israele a smascherarsi nelle sue insospettabili debolezze. Non avveniva con un raid terroristico, l’infiltrazione di alcuni aspiranti “martiri” che uccidono qualche automobilista sventurato oi vengono passeggeri di un autobus e poi eliminati. Hamas ha realizzato un’operazione militare in grande stile dietro cui si legge la mano dell’Iran, che vuol scombinare le nuove alleanze del Vicino Oriente, aprire nuovi fronti. Dopo ore Israele, nel caos, non era ancora riuscito a organizzare una risposta. Se non il rituale dei bombardamenti aerei su Gaza, che in questo caso non son segno di superiorità tecnologica e distruttiva ma di impotenza. Nel 1973 il capo di stato maggiore Elazar promette: spezzeremo le ossa degli aggressori. Sembra di leggere i proclami di ieri che annunciavano punizioni inimmaginabili ai palestinesi. Mentre scorrevano le immagini dei kibbutz in fiamme. E della frontiera divelta.
Nel 1973 Israele era un Paese soddisfatto, sicuro di sé, lo guidavano i decorativi superstiti dell’ebbra generazione dei vincitori. Che vennero spazzati via da quella ambigua e faticosa “vittoria”. Golda Meir, travolta dalle polemiche sui “Mehdalim”, gli errori e l’impreparazione della guerra di ottobre, si ritirò in un kibbutz, Dayan si dimise. Stanco dei mostri sacri, gli uomini di macigno e di ferro, Israele cominciò a vivere il tempo degli anonimi, uomini di nebbia e di vento. Alla vigilia del secondo Kippur, quando ha di nuovo guardato la morte in faccia, era aspramente diviso, avvilito, tormentato dai dubbi su di sé, perfino sull’essere ancora “l’unica democrazia del Medio Oriente”, minacciato ed agitato dalle zuffe e dai colpi di mano dei mediocri che ostinatamente lo guidano. Nel 1973 la guerra causò una drammatica crisi di identità. E Oggi?CONTINUA A LEGGERE SU CARTOMANZIA GRATIS